
Di Marco Zuccaro:
Un altro aspetto interessante, e nondimeno sottovalutato, della cosiddetta “campagna vaccinale” (che in sé non è altro che una parte consistente della gestione politico-militare della cosiddetta emergenza pandemica) consiste chiaramente in questo: che le immagini degli aghi e delle siringhe sono state sdoganate, sono finite letteralmente ovunque, divenendo onnipresenti. Poiché preso da mille altre cose (le menzogne veicolate dalla propaganda, i conflitti di interesse dei servi del potere, le scoperte compiute dai veri uomini di scienza, i risvolti giuridici ed economici dell’intera faccenda, ecc.), io non mi sono mai fermato a osservare l’ovvio, e non ho mai riflettuto veramente sulla semiotica di tutta l’operazione. Ora che mi son fermato, credo di stare avendo un’intuizione, perciò mi chiedo e vi chiedo: siamo realmente in grado di avvertire dentro di noi la violenza che è stata esercitata, anche in questo? Quanto feticismo, quanto esibizionismo c’è stato – e c’è ancora – in questo voler mostrare l’ago in ogni dove? Telegiornali e piattaforme social sono state invase fin dai tempi di quel famigerato “furgone delle prime dosi” (un altro innesto simbolico profondo, oserei archetipico: l’immagine del deus ex machina, di ciò che salva, e dunque essa stessa “immagine salvifica” proiettata nelle nostre menti onde chiudere il cerchio rispetto al suo contraltare – l’immagine mortifica, o mortificante: vale a dire la parata della morte dei camion di Bergamo). Da quel momento in avanti aghi e siringhe sono stati mostrati a ogni ora, sempre, senza curarsi minimamente dell’età degli spettatori. L’ago è divenuto una presenza fissa anche in manifesti, cartelloni, locandine e così via: qualcosa cui l’occhio umano non poteva sottrarsi, una costanza. Posto che una tale tortura era sicuramente finalizzata a incantare le nostre menti per attirarci in trappola, quali altre ipotesi, quali altre considerazioni possiamo compiere su questi elementi? Forse che una buona parte della dissonanza cognitiva delle vittime di questo genocidio risieda non tanto (o non solo) nell’inganno esercitato tramite la menzogna dei presunti esperti (induzione alla sottomissione dell’auctoritas), bensì (e soprattutto) nell’ipertrofico utilizzo delle immagini? Forse che nella normalizzazione dell’insolito stia il vero punto di forza di ogni propaganda? Come a dire: non ciò che la propaganda veicola o trasmette (la menzogna, l’inganno), bensì la propaganda in sé, la propaganda per il fatto di esserci, la propaganda spinta agli estremi eccessi: si fa persona e dà compagnia, divenendo perciò fraterna. In sintesi: la propaganda come presenza quasi corporale nelle nostre vite. Se tale ipotesi fosse corretta, noi capiremmo finalmente perché la buona informazione scientifica (l’enorme lavoro compiuto dai medici e dai ricercatori onesti) non ha potuto salvare né far cambiare idea a molti tra noi, neppure dinnanzi all’evidenza, neppure dinnanzi alle contraddizioni più sconcertanti. Sapremmo perché molti di noi non sono stati più capaci di seguire un filo logico, e comprenderemmo subito perché la verità non poteva risultare, da sé, sufficiente. Dovremmo immaginare la vittima della propaganda come una persona isolata da tutte le altre, nonché circondata dai segni e dai simboli che le impediscono di essere raggiunta dalla verità. In tal senso, prendere in disparte un amico ottuso per cercare di portarlo a più saggi pensieri era pur necessario, sì, ma conduceva invero al fallimento, poiché serviva anche dell’altro. Oggi, senza alcuna presunzione verso il mondo o verso gli altri, io sto facendo una scoperta in me stesso, e sto comprendendo realmente perché ribattere alla propaganda con la corretta informazione scientifica non poteva condurmi agli esiti che speravo. Oggi io sto avendo questa mia intuizione: che rispondere alla propaganda con la verità non è il modo migliore di rispondervi, e che non v’è modo migliore di rispondervi che quello di abbattere concretamente i suoi simboli.
Può sembrare una banalità, come qualcuno che voglia assalire e distruggere le antenne di trasmissione della propaganda; eppure io vedo in questo qualcosa di molto profondo, quasi di magico. Se una persona immersa in un contesto distopico viene d’un tratto informata della verità, essa rigetta la verità come una stranezza, una assurdità; viceversa, se viene allontanata dai segni utilizzati dal nemico, essa rinsavisce, e lo fa nel giro di poco tempo. Non serve veramente, perché non è mai stato risolutivo, il gesto di chiunque – me compreso – si sia sforzato di rispondere alle menzogne del nemico con la logica, il ragionamento, la verità. In contesti distopici non bisogna aver paura di sporcarsi le mani, vale a dire: distruggere. Ecco quel che ci è mancato in coraggio, quando abbiamo cercato una via per salvare alcune vittime a noi vicine: la faccia tosta di distruggere, distruggere veramente la televisione e la radio, e strappare veramente ogni tipo di manifesto, e sgomberare il campo da ogni segno del nemico. Non lo abbiamo fatto perché non avevamo ancora capito quanto fosse necessario, o perché speravamo di vincere l’incanto con la logica; e invece dovevamo distruggere, distruggere le immagini nemiche, perché sono sempre state quelle, le immagini in sé – a prescindere dal significato che poteva loro attribuirsi -, a vincere le difese dei singoli, a trascinare i singoli nel baratro.