Vai al contenuto

Rimettere il Divino al centro della Chiesa. La sfida di Joseph Ratzinger.



Di Valerio Casali

Pubblico qui la trascrizione di alcuni minuti centrali della conferenza del cardinale Ratzinger al meeting di Rimini del 1990, che permettono di conoscere più in profondità il pensiero e il Credo del Ratzinger uomo e Cattolico, e inquadrano in modo puntuale una questione centrale dei nostri tempi, ovvero la fondamentale distanza tra due modi di concepire l’azione e l’organizzazione umana.
La riflessione di Ratzinger interessa infatti non soltanto l’ambito ecclesiastico, ma si pone sulla scia delle riflessioni critiche sull’attivismo (e sulla storia) come attività puramente umana, e sull’idea che l’uomo debba realizzare qualcosa mediante l’esercizio della sua volontà e della sua capacità di trasformare il reale.

Nell’interrogarsi sulla costantemente invocata “riforma della Chiesa” Ratzinger critica la tendenza presente nel cattolicesimo verso un’integrazione col mondo moderno democratico e un’assimilazione dei suoi meccanismi. Una tendenza che Ratzinger definisce “autoriale”, creativa, spontanea e autogestita. Una Chiesa dal basso, che si vorrebbe comunità aperta e libera, spazio per eccellenza della libertà a cui ambisce l’uomo moderno, libertà che non trova nelle costrizioni di una vita legata all’istituzione.
Se infatti Ratzinger riconosce alla Chiesa la possibilità e la responsabilità di rappresentare quell’anelito di libertà che l’uomo non trova nella propria esistenza, per lui questo non potrà avvenire semplicemente nel farsi pallida imitazione del modello democratico.
Egli ritiene invece, sulla scia dell’Umanesimo Integrale di Jacques Maritain, che la chiesa debba invece rimettere Dio al centro, quindi ritrovare un nuovo Umanesimo che non sia antropocentrico ma Teocentrico, abbandonare la deriva del fare e abbracciare l’Essere, sostituire l’attivismo con l’ammirazione e la devozione, evitando di rinchiudersi dentro gli angusti spazi del finito, del fine in sé, propri del positivismo, per ritrovare quell’anelito d’infinito, quello Spirito, che è voce di Verità e motivo della propria esistenza. Ciò avviene attraverso una costante Ablatio, una riforma costante che è continua distruzione delle forme in cui l’attività umana rinchiude il manifestarsi dello Spirito.

“(…)
Una chiesa che riposi sulle decisioni di una maggioranza diventa una chiesa puramente umana. Essa è ridotta al livello di ciò che è fattibile e plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni e opinioni. L’opinione comincia a sostituire la fede, ed effettivamente nelle formule di fede coniate da sé che io conosco, il significato dell’espressione credo non va mai aldilà del significato “noi pensiamo che sia così”. La chiesa fatta da sé ha alla fine il sapore di sé stessi, che agli altri sé stessi non è mai gradito e ben presto rivela la propria piccolezza. Essa si è ritirata nell’ambito dell’empirico e così si è dissolta anche come ideale sognato. L’attivista, colui che vuol costruire tutto da sé, è il contrario di colui che ammira, dell’ammiratore. Egli (l’attivista) restringe l’ambito della propria ragione e perde così di vista il Mistero. Quanto più nella chiesa si estende l’ambito delle cose decise da sé e fatte da sé, tanto più angusta essa diventa per noi tutti. In essa la dimensione grande, liberante, non è costituita da ciò che noi stessi facciamo, ma da quello che a noi tutti è donato. Quello che non proviene da un nostro volere e inventare, bensì è un precederci, un venire a noi di ciò che è inimmaginabile, di ciò che è più grande del nostro cuore. La riformatio, quella che è necessaria in ogni tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la nostra chiesa come più ci piace, che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi Spazziamo via sempre, nuovamente, le nostre proprie costruzioni di sostegno, in favore della luce purissima che viene dall’alto e che è nello stesso tempo l’eruzione della pura libertà. Lasciatemi dire con un’immagine ciò che io intendo, un’immagine che ho trovato in Michelangelo, il quale riprende in questo da parte sua antiche concezioni della mistica e della filosofia cristiana. Con lo sguardo dell’artista, Michelangelo vedeva già nella pietra che gli stava davanti l’immagine guida che nascostamente attendeva di venir liberata e messa in luce. Il compito dell’artista secondo lui era solo quello di toglier via ciò che ancora ricopriva l’immagine. Michelangelo concepiva l’autentica azione artistica come un riportare alla luce, rimettere in libertà, e non come un fare. La stessa idea, applicata però all’ambito antropologico, si trovava già in San Bonaventura, il quale spiega il cammino attraverso cui l’uomo diviene autenticamente se stesso, prendendo lo spunto dal paragone con l’intagliatore di immagini, cioè con lo scultore. Lo scultore, dice, non “fa” qualcosa, la sua opera è invece un’Ablatio, essa consiste nell’eliminare, nel toglier via ciò che è inautentico. In questa maniera, attraverso la ablatio, emerge la Nobilis Forma, cioè la Figura Preziosa. Così anche l’uomo affinché risplenda in lui l’immagine di Dio deve soprattutto e prima di tutto accogliere quella purificazione attraverso la quale lo scultore, cioè Dio, lo libera da tutte quelle scorie che oscurano l’aspetto autentico del suo Essere, facendolo apparire solo come un blocco di pietra grossolano, mentre invece inabita in lui la forma Divina. Se la intendiamo giustamente possiamo trovare in questa immagine anche il modello guida per la vera riforma ecclesiale. Certo, la Chiesa avrà sempre bisogno di nuove strutture umane di sostegno per poter parlare e operare ad ogni epoca storica. Tali istituzioni ecclesiastiche di diritto umano, con le loro configurazioni giuridiche, lungi dall’essere qualcosa di cattivo, sono al contrario in un certo grado semplicemente necessarie ed indispensabili. Ma esse invecchiano, rischiano di presentarsi come la cosa più essenziale, e distolgono così lo sguardo da quanto è veramente essenziale. Per questo esse devono sempre di nuovo venir portate via, come impalcature divenute superflue. Riforma è sempre nuovamente una ablatio, un toglier via, affinché divenga visibile la nobilis forma, il volto della sposa ed insieme con esso, anche il volto dello sposo stesso, il Signore vivente. Una simile ablatio è una via verso un traguardo del tutto positivo. Solo così il Divino penetra, e solo così sorge una Congregatio, un’assemblea, un raduno, una purificazione, quella comunità pura a cui giustamente aneliamo, una comunità in cui un io non sta più contro un altro io, un sè contro un altro sé; piuttosto quel donarsi, quell’affidarsi con fiducia, che fa parte dell’amore, diventa il reciproco ricevere tutto il bene e tutto ciò che è puro. E così per ciascuno vale la parola del Padre generoso, il quale al figlio maggiore invidioso, richiama alla memoria quanto costituisce il contenuto di ogni libertà e di ogni utopia realizzata. Tutto ciò che è mio è Tuo. La vera riforma è dunque una ablatio che come tale diviene congregatio.
Cerchiamo di afferrare in modo un po’ più concreto questa mia idea di fondo. In un primo approccio avevamo contrapposto all’attivista l’ammiratore, e ci eravamo espressi in favore di quest’ultimo. Ma che cosa esprime questa contrapposizione? L’attivista, colui che vuol sempre fare, pone la sua propria attività al di sopra di tutto. Ciò limita il suo orizzonte all’ambito del fattibile, di ciò che può diventare oggetto del suo fare. Propriamente parlando egli vede soltanto degli oggetti, non è affatto in grado di percepire ciò che è più grande di lui, perché ciò porrebbe un limite alla sua attività. Egli restringe il mondo a ciò che è empirico: l’uomo viene amputato, l’attivista si costruisce da solo una prigione contro la quale poi egli stesso protesta ad alta voce. Invece l’autentico stupore è un no alla limitazione dentro ciò che è empirico, dentro ciò che è solamente l’aldiqua. Esso prepara l’uomo all’atto della fede che gli spalanca dinanzi l’orizzonte dell’eterno, dell’infinito, e solamente ciò che non ha limiti è sufficientemente ampio per la nostra natura. Solamente l’illimitato è adeguato a

lla vocazione del nostro Essere. Dove questo orizzonte scompare ogni residuo di libertà diventa troppo piccolo, e tutte le liberazioni che di conseguenza possono venir proposte, sono un insipido surrogato che non basta mai. La prima fondamentale Ablatio che è necessaria per la chiesa, è sempre nuovamente l’atto della fede stessa. Quell’atto di fede che lacera le barriere del finito, e apre così lo spazio per giungere sino allo sconfinato. La fede ci conduce in terre sconfinate, come dicono i salmi.
Il moderno pensiero scientifico ci ha sempre più rinchiusi nel carcere del positivismo, condannandoci così al pragmatismo. Per merito suo si possono raggiungere molte cose, si può viaggiare fin sulla Luna, e ancora più lontano, nell’illimitatezza del cosmo. Tuttavia, nonostante questo, si rimane sempre allo stesso punto, perché la vera e propria frontiera: la frontiera del quantitativo e del fattibile, non viene oltrepassata. Albert Camus ha descritto l’assurdità di questa forma di libertà nella figura dell’imperatore Caligola: tutto è a sua disposizione, ma ogni cosa gli è troppo stretta. Nella sua folle bramosia di avere sempre di più e cose sempre cose più grandi, egli grida: Voglio avere la Luna! Datemi la Luna! Ora nel frattempo è divenuto per noi possibile avere, in qualche modo, anche la luna, ma finché non si apre la vera e propria frontiera, la frontiera fra terra e cielo, fra Dio e mondo, anche la Luna è solamente un ulteriore pezzetto di terra, e il raggiungerla non ci porta neanche di un passo più vicini alla libertà e alla pienezza che desideriamo. La fondamentale liberazione che la chiesa può darci è lo stare nell’orizzonte dell’eterno, è l’uscir fuori dai limiti del nostro sapere e del nostro potere. La fede stessa in tutta la sua grandezza e ampiezza è perciò sempre nuovamente la riforma essenziale di cui noi abbiamo bisogno. A partire da essa noi dobbiamo sempre di nuovo mettere alla prova quelle istituzioni che nella chiesa noi stessi abbiamo fatto. Ciò significa che la chiesa deve essere il ponte della fede, e che essa, specialmente nella sua vita associazionistica intramondana, non può divenire fine a se stessa.
E’ diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici abbastanza elevati, l’idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica dell’attività, del darsi da fare. A ciascuno si cerca di assegnare un comitato o in ogni caso almeno un qualche impegno all’interno della chiesa. In qualche modo, cosi si pensa, ci deve sempre essere un’attività ecclesiale, si deve parlare della chiesa o si deve fare qualcosa in essa. Ma uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio. Una finestra che invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte si frappone come uno schermo fra l’osservatore e il mondo, ha perso il suo senso. Può capitare che qualcuno eserciti interrottamente attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto un cristiano. Può capitare invece che qualcun altro viva solo semplicemente della parola e del sacramento e pratichi l’amore che proviene dalla fede, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, senza mai essersi occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver fatto parte di sinodi, senza aver votato in essi, e tuttavia egli è un vero cristiano. Non è quindi di una chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una chiesa più Divina, e solo allora essa sarà veramente umana, e per questo tutto ciò che è fatto dall’uomo all’interno della chiesa deve riconoscersi nel suo puro carattere di servizio, e ritrarsi davanti a ciò che più conta e che è l’essenziale.
La libertà che noi ci aspettiamo con ragione dalla chiesa e nella chiesa, non si realizza per il fatto che noi introduciamo in essa il principio della maggioranza. Essa non dipende dal fatto che la maggioranza più ampia possibile prevalga sulla minoranza più esigua possibile. Essa, questa libertà, dipende invece dal fatto che nessuno può imporre il suo proprio volere agli altri, bensì tutti si riconoscono legati alla parola e alla volontà dell’Unico che è il nostro Signore e la nostra Libertà. Nella chiesa l’atmosfera diventa angusta e soffocante se i portatori del ministero dimenticano che il sacramento non è una spartizione di potere, ma è espropriazione di me stesso, in favore di colui nella persona del quale io devo parlare e agire, dove alla sempre maggiore responsabilità corrisponde la sempre maggiore auto-espropriazione. Lì nessuno è schiavo dell’altro, lì domina il Signore, e perciò vale il principio che il Signore è lo spirito. Dove però c’è lo Spirito del Signore, ivi c’è la Libertà.(…)”

Parole preziose su cui riflettere, in un momento storico in cui alcuni di noi percepiscono chiara l’urgenza dell’agire, eppur faticano a mettere a fuoco la direzione dell’azione, tanto che ogni azione porta con sé la sensazione dell’inutilità, accompagnata dal rischio, reale o percepito, di perpetrare i medesimi confini che limitano la nostra libertà, e rimanere con la sensazione di un altrove, che pur esiste, ma resta separato dalle nostre azioni.

Di seguito il link alla conferenza integrale di Ratzinger.


https://www.youtube.com/watch?v=DyCw9M7mH24

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *